Giornata mondiale della violenza sui pesci

 

 

Finora l’ho raccontata a pochi intimi, perché non è una storia edificante. Ma ora voglio renderla pubblica, ché tanto non mi resta molto da campare e se ho toccato il fondo, in quell’occasione, visto che è una storia che mi riguarda, vuol dire che non posso scendere più in basso. Ero in Madagascar, aspettavo la mia seconda moglie Tina, che era andata a vendere vestiti come faceva, grazie ai miei finanziamenti, per guadagnarsi qualche soldino. La spettavo sotto l’albero dei manghi, circondato da galline interessate ai miei salatini, compreso un gallo prepotente che, se non riceveva cibo, mi attaccava. Per ammazzare il tempo, bevevo vino bianco, originario del Sudafrica e comprato nel supermercato di Tulear. Finii la prima bottiglia e attaccai con la seconda. Quando ero a metà della seconda, vidi arrivare Tina con un involto contenente pesce fresco. In men che non si dica, Tina accese la “fatapera”, una specie di fornelletto alimentato a carbonella, sotto l’albero dei manghi. Erano quei pesci che non hanno bisogno d’essere puliti, ma si mettono direttamente sulla griglia. Il profumino di pesce fritto, che mi ricordava l’infanzia quando me lo preparava mia madre, cominciò a diffondersi nell’aria e il mio stomaco cominciò a brontolare. Il pesce ha bisogno del suo tempo per essere cotto a puntino, ma io avevo fame e cominciai a sollecitarla dicendole di fare in fretta. 

 

 

Avevo bevuto una bottiglia e mezza di vino bianco, praticamente a stomaco vuoto perché i salatini se li erano pappati quasi tutti i gallinacci. Finalmente, arrivò la prima porzione di pesce fritto, ma contemporaneamente arrivarono anche i sensi di colpa. In seguito Tina racconterà di avermi sentito dire, a voce alta e con tono lamentoso: “Sono un animalista del ca**o. Io sono putrido”. Quest’ultima espressione l’avevo sentita in un film di Luis Bunuel, da un attore che interpretava la parte di un masochista. E anche: “Io mi faccio schifo! Sono un animalista di mer*a”.

Insomma, ero in pieno delirio. Fino a quel giorno credevo di avere la “sbronza triste”, innocua e piagnucolosa, ma da quel giorno scoprii di avere anche la “sbronza violenta”. Ero sempre più impaziente di ricevere la seconda porzione di pesce fritto, ma la “fatapera” è un fornelletto con una piccola superficie e quindi Tina ne poteva cuocere pochi alla volta. Io volevo capricciosamente che mi desse altro pesce, come un bambino viziato, e mi sembrava che lei ci mettesse troppo tempo a friggerlo. Non so perché, ma mi alzai in piedi e, preso da una furia irragionevole, diedi un calcio alla “fatapera”, mandando i carboni e quello che rimaneva del pesce a rotolare nella sabbia sotto il mango. Tina a quel punto non si contenne e cominciò a menar le mani (non era la prima volta che lo faceva). A mia volta, non solo cercai di parare i suoi colpi, ma ricambiai i pugni, dove capitava. “N’do cojo, cojo”, dicono a Roma. La battaglia, iniziata sotto il mango, si trasferì in casa, dove cominciarono a volare i piatti e forse anche qualche bicchiere. I pugni continuarono ad essere elargiti, in entrambe le direzioni, cioè in modo biunivoco. Stemmo tre giorni senza parlarci, finiti i quali ci rappacificammo e Tina mi raccontò quello che avevo fatto e detto, anche perché le sbronze hanno la caratteristica di far calare un pesante oblio sui ricordi. I lividi che avevo sulle braccia, dovuti ai suoi pugni, erano la muta testimonianza della veridicità di quanto mi raccontava. Anche lei aveva dei lividi, ma sulla sua pelle marrone si vedevano poco. Questo episodio risale al 2016, o giù di lì. Nessun giudice mi accusò di violenza sulle donne. Da quel giorno, non ho più toccato pesci, che preferisco tenere vivi nei miei acquari e trattati con tutti i riguardi. In Madagascar, purtroppo, non ci tornerò più!

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